Abbattimento selettivo nel Parco
Intervista a Bernardino Ragni coordinatore scientifico dell’operazione cinghiale
di Michele Sensini

In questi giorni si sta svolgendo la seconda fase del corso di abilitazione
all’abbattimento selettivo del cinghiale, promosso dall’Ente Parco Nazionale
dei Monti Sibillini in collaborazione con l’Università di Perugia e con l’ausilio
del Corpo Forestale dello Stato, a cui partecipano gli oltre 100 cacciatori
che hanno superato l’esame di profitto della prima fase del corso, svoltosi
a Norcia, Fiastra e Montefortino.
La seconda fase comporta un tirocinio di dieci giorni di prelievo selettivo del
cinghiale da svolgersi sul campo. Al termine del corso verrà istituito un albo
ufficiale degli addetti al prelievo selettivo del cinghiale nel territorio del
Parco.
Abbiamo intervistato il coordinatore del Corso, il prof. Bernardino Ragni,
docente dell’Università di Perugia, che ci spiega alcuni aspetti di questa
iniziativa del Parco Nazionale dei Monti Sibillini.

Prof. Ragni, come è possibile che il Parco Nazionale, un’istituzione che
tutela l’ambiente e gli animali, abbia deciso l’abbattimento selettivo del
cinghiale?

I motivi sono sotto gli occhi di tutti coloro che abitano nel territorio del
Parco Nazionale dei Monti Sibillini: i cinghiali sono proliferati notevolmente
e sono aumentate le proteste degli agricoltori e dei proprietari dei fondi che
hanno visto intere coltivazioni andare in rovina. Oltre ai motivi ben visibili di
natura puramente economica, ve ne sono altri che non tutti possono
facilmente comprendere ma che sono oltretutto pericolosi per l’ambiente.
Abbiamo dimostrato, infatti, che la distruzione delle colture dei monti
Sibillini, alcune delle quali hanno origine antichissime e quindi anche un
indiscusso valore storico da salvaguardare, danneggia in maniera
irreversibile l’”agrosistema” di questo territorio.
In altri termini, le coltivazioni agrarie non sono estranee all’ecosistema, ma
ne sono parte integrante: fungono, cioè, sia da alimento sia da rifugio per
gli animali. Lasciare che queste colture vengano distrutte porterebbe a
gravissimi squilibri ecologici.

L’abbattimento selettivo era l’unica soluzione per arginare la crescita di
questo fenomeno?

Sono state prese in considerazione altre strade prima di questa, ad
esempio i cosiddetti “interventi ecologici” che più correttamente dovrebbero
essere definiti “inoffensivi”. Si tratta di recinti e barriere che, per arginare la
mole e la potenza del cinghiale, dovrebbero essere dei veri e propri muri di
pietra. Senza contare i costi elevatissimi dell’operazione e l’impatto
ambientale sgradevole che comporterebbe l’edificazione di muri di due metri
di altezza, verrebbe anche preclusa la strada a tutti gli altri animali, creando
ulteriori squilibri ecologici.

Perchè è stata abbandonata la tradizionale battuta al cinghiale a squadre
e si è pensato di usare la carabina?

La carabina consente un abbattimento di tipo “chirurgico”, cioè mirato a
questo o a quell’altro esemplare. Il “paleolitico” abbattimento a squadre con
l’ausilio dei cani, ben poco selettivo, è un metodo che consente di
indirizzare i cinghiali verso determinate “poste” dove poi vengono abbattuti.
Ciò implica il passaggio di decine di cani e persone attraverso una estesa
zona che viene sconvolta nelle sue componenti faunistiche ed anche
florisitche.
Il metodo da noi usato è stato ostacolato e criticato perché ritenuto troppo
“morbido” e poco efficace. Invece i risultati hanno dimostrato come l’uso
tecnico della carabina dia risultati superiori, non solamente dal punto di
vista qualitativo ma anche quantitativo.

Facciamo un passo indietro: il Parco è stato accusato di essere la causa
principale della proliferazione di questi animali che, oltretutto, hanno
raggiunto dimensioni più grandi rispetto cosiddetto cinghiale maremmano.
Come risponde a quanti sono convinti di questo?

Il cinghiale dei Sibillini, al contrario, risulta di taglia mediamente inferiore a
quello delle zone circostanti. Non è stata l’istituzione del Parco la causa
primaria della proliferazione dei cinghiali, ma l’introduzione di questa specie
per motivi venatori. La diffusione del cinghiale non riguarda solo i Sibillini o
altri Parchi, ma un po’ tutto l’Appennino: non è quindi limitato alle aree in
cui è vietata la caccia.
Certo, il cinghiale è una specie molto adattabile, molto plastica e
“intelligente”, per questo tende a concentrarsi nell’area protetta dove trova
un ambiente particolarmente favorevole. Parlare di cinghiale maremmano,
come di specie originale estinta, in contrapposizione alla specie che
attualmente abita l’appennino, introdotta ed estranea, non è esatto.
Il cinghiale rappresenta una specie cosiddetta “politipica” che, come
l’uomo, è costituita da numerose popolazioni locali, reciprocamente diverse
per effetto dell’adattamento all’ambiente in cui vivono ma che condividono,
sostanzialmente, lo stesso patrimonio genetico”.
C’è da dire, infine, che l’Ente Parco ha approvato anche un regolamento per
l’accertamento e la liquidazione dei danni causati dai cinghiali agli
agricoltori residenti o proprietari di terreni ubicati all’interno del Parco.
Queste iniziative stanno permettendo all’Ente di gestione di vincere le
ostilità dei cacciatori e la rabbia degli agricoltori danneggiati dalla fauna
selvatica. L’ostilità iniziale si è trasformata piano piano in diffidenza, poi in
dubbio ed oggi in vera e propria collaborazione con l’ Ente Parco. E proprio
la collaborazione tra istituzioni e popolazione residente è stata sin
dall’inizio una delle idee guida della politica del Parco Nazionale dei Monti
Sibillini.
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Lo stagno rosso
Abbattimento selettivo
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