Una lezione e di topografia medioevale
Le antiche misurazioni gromatiche interessano da vicino
anche l'area del Parco Nazionale dei Monti Sibillini e sono esempio
dei principi che stanno alla base degli usi civici

di Romano Cordella

Attraverso questo articolo possiamo renderci conto di come la conoscenza
della storia locale permette di approfondire molti aspetti sconosciuti alla
maggior parte delle persone perchè non più utilizzati e quindi dimenticati.
La riscoperta di queste curiosità storiche non solo ci permette di capire
meglio il nostro passato ma anche di riqualificare quello che ai nostri occhi
può risultare “banale” o “scontato”. Prossimamente sarà pubblicata una
riedizione degli Statuti di Norcia, non più stampati dal lontano 1526.
Il curatore dell’opera, Romano Cordella, si sofferma su una parte degli
Statuti che interessa da vicino l’area del Parco Nazionale dei Monti Sibillini,
il VI libro. Se fino ad epoca recente esso fu utilizzato esclusivamente in
sede giudiziaria, ora può diventare uno strumento diverso per avvicinarsi alla
realtà naturale, ambientale e storica del Parco.
Quasi tutto il VI libro degli Statuti di Norcia, per la precisione 70 rubriche
risalenti al 1346, è dedicato alla ripartizione dei beni comunali situati alle
quote più alte delle montagne a oriente dell’altopiano di S. Scolastica.
Una ripartizione che rispondeva sia a necessità economiche che territoriali,
decisa a vantaggio degli abitanti del capoluogo e di una gran parte del
contado. Si trattava dei beni appartenenti alla collettività e come tali
inalienabili e godibili dai nativi residenti nel comune, a condizione che
questi ultimi fossero iscritti nel libro dei focolari e pagassero le imposte.
Ad essi venne concesso il diritto di utilizzare prati, selve e ‘cese’ (terreni
ridotti a coltura dopo essere stati disboscati) e di goderne i frutti: fieno,
legna, cereali, biade, legumi, ecc. Un’operazione delicata, come si può
capire, per la quale fu istituita una commissione formata da 16 uomini, due
per ogni ‘guaita’ (rione) di Norcia.
La montagna fu divisa dapprima in tre grandi settori; ogni settore fu
successivamente ripartito in porzioni via via più piccole fino ad arrivare alla
‘parte di monte’ spettante al singolo nucleo familiare (detta perciò anche
‘parte foculare’). Gli statuti parlano sinteticamente di “divisione dei monti o
del monte”, avendo quest’ultimo termine un significato collettivo che oggi si
è perso. Questo spiega perché Castelluccio si chiamò, per lungo tempo,
Castello del Monte, come numerosi altri luoghi fortificati dell’Appennino che
avevano la funzione di vigilare sulle superfici pascolive, essenziali
all’economia agro-pastorale del tempo. Per non confondersi l’uno con l’altro,
i vari Castel del Monte furono spesso distinti da un’apposizione. Il nostro si
chiamò Castello di Monte Precino, non perché avesse a che fare con Preci,
come si continua a dire, ma semplicemente perché il Piano Grande di
Castelluccio fu denominato anticamente ‘pricino’, forma rara (attestata
comunque nelle Carte di Sassovivo) e d’incerto significato etimologico.
La divisione dei monti ebbe luogo secondo una procedura rigorosa,
supportata dalle misurazioni degli agrimensori che attorno al 1346 ebbero
un gran da fare con i loro rudimentali strumenti. L’assegnazione delle zone
principali in cui fu ripartito il suolo comunale avvenne secondo il metodo
adottato dal leone nel celebre apologo; al contrario, l’attribuzione delle zone
secondarie avvenne per estrazione a sorte. Alle otto guaite di Norcia-città
andò la fetta più succulenta: tutta l’area del Piano Grande e del Piano
Piccolo comprese le montagne che stanno in mezzo e cioè la Rotonda
(monte Guaidone) e la Rotondella, assieme alle pendici di monte Vettore
(Piè di Vettore) fino alla Forca di Presta, e assieme alla maggior parte di
selva Cavaliera fino a Carbonara e al monte Cappelletta (quest’ultima
contrada detta curiosamente “Morte del Ceco”). Per un antico privilegio
concesso dal comune di Norcia alle famiglie che s’insediarono sul colle di
Castelluccio a 1450 metri d’altezza, ai Castellucciani furono riservate fasce
di territorio (“senaite”) che andavano dalle immediate adiacenze del Piano
Grande e del Piano di Cànetra (Pian Perduto) fino ai Colli Alti e Bassi e al
vallone di Vettore. Un solco rinnovato ogni anno divideva le senaite di
Castelluccio dall’area comunale, ma rimaneva saldo il principio che tutto il
territorio, in qualsiasi modo diviso e attribuito, restava soggetto all’alto
dominio di Norcia e che qualora fosse cessato per qualche ragione
l’usufrutto di una ‘parte di monte’, questa ritornava al comune.
Gli abitanti del contado dovettero accontentarsi delle frange più scomode,
povere e insicure delle alture che circondavano gli altopiani di Castelluccio.
Ai contadini che risiedevano nei castelli e ville a nord della linea fiume
Sordo - fiume Corno, ovvero a nord dell’allineamento Forca d’Ancarano -
Biselli, furono assegnate le groppe montuose che separano il Piano di
S. Scolastica dal Piano Grande, grosso modo comprese fra monte Patino
e monte Ventosola, con l’aggiunta della zona ‘calda’ di monte Lieto, Forca
di Gualdo e Palazzo Borghese, sempre contesa da Visso e Montemonaco,
comuni confinanti con Norcia. Ai contadini che abitavano a sud di quella
linea, toccarono i pascoli cacuminali che formano grosso modo lo
spartiacque fra Adriatico e Tirreno, compresi tra Forca di Presta e Forca
Canapine, e da qui, proseguendo per i Pantani di Accumoli e monte Utero,
fino a monte Alvagnano, vale a dire tutta la fascia a confine con Arquata,
Accumoli, Amatrice e Cascia, in parte coincidente con la frontiera tra Stato
Pontificio e Regno di Napoli. Pescia, allora feudo dei nobili di Chiavàno,
costituiva una specie di enclave all’interno del distretto nursino e di
conseguenza le sue pertinenze non rientravano nella divisione del 1346.
Ciò che attira la nostra attenzione è il sistema in base al quale fu
parcellizzato e distribuito il territorio collettivo del ‘monte’, una tecnica
probabilmente inaugurata in epoca romana. La mappatura s’incentrava su
una linea madre che originava dalla cima più alta del Vettore umbro (Cima
del Redentore, m. 2449) e scendeva perpendicolarmente fino al cosiddetto
Sasso Urbano (localmente ‘lu Sassone’), un masso erratico situato ai piedi
del Vettore, forse rotolato dallo Scoglio dell’Aquila. Apriamo qui due brevi
incisi. Il primo è che tale masso appare artificialmente squadrato su un lato,
certo per qualche uso che non riusciamo a capire bene ma che forse è da
ricollegare con le misurazioni gromatiche di cui parlano le fonti antiche a
proposito dell’ “ager nursinus”. Sta di fatto che sfiorando con l’occhio la
faccia verticale della pietra si traguarda perfettamente la cima del monte
Ventosola, il che, come si dirà, ha la sua importanza. Il secondo inciso è
piuttosto una curiosità: lo Scoglio dell’Aquila che fuoriesce dal fianco
meridionale del Vettore può paragonarsi, al dire dei geologi, ad una sorta
di cialda confitta in un budino. Il connubio dovette avvenire quando la massa
che compone il Vettore, in remotissime ere geologiche, inglobò un
frammento staccatosi da una enorme rupe sovrastante (il Gran Sasso?).
Ma ritorniamo alla linea virtuale di cui si è detto. Essa si trasformava in un
solco concretamente tracciato sul terreno fino a raggiungere un termine
posto fra la punta di monte Castello e l’Inghiottitoio dei Mergani,
all’estremità opposta del Pian Grande, seguendo la direttrice Sasso
Urbano - cima della Ventosola. E’ stupefacente constatare, con l’aiuto di
una riga e di una carta geografica, come la vasta superficie prativa del Pian
Grande sia perfettamente divisa in due da questa linea.
Gli statuti descrivono minutamente il reticolo generato dall’intersezione di
questo asse longitudinale con l’asse trasversale che partiva dalla fonte
situata a metà del Pian Grande e proseguiva fino all’inizio di Vallelunga o
valle di Bonanno, tra la Rotonda e la Rotondella. L’incrocio di questi due
assi maestri, perfettamente ortogonali come ancora mostra la pista che
ricalca l’asse trasversale, ricorda da vicino le tecniche di centuriazione
romane (cardo e decumano). Nelle rubriche del VI libro vengono
ripetutamente citati punti di riferimento, traiettorie, numero di pertiche
misurate, microtoponimi, ed altri numerosi particolari utili per una minuziosa
ricostruzione dell’assetto catastale che questa notissima area del Parco
Nazionale dei Sibillini assunse nel medioevo. Ma non ci dilungheremo oltre
sugli aspetti topografici che rappresentano, fra l’altro, solo la fase
conclusiva della immane fatica affrontata dagli agrimensori e dai
‘terminatori’ del 1346, per non dire dei notai che dovettero tradurre nero su
bianco le indicazioni orali via via esplicitate da quelli.
In conclusione si può affermare che la divisione dei monti di Norcia
costituisce uno degli esempi più notevoli dell’attuazione dei principi che
stanno alla base degli ‘usi civici’ e che essa aggiornava consuetudini
precedenti, passate dall’anti
chità al medioevo senza soluzione di continuità.
La divisione dei monti sottolinea inoltre il ruolo rivestito dalla principale
risorsa economica del tempo: il pascolo e l’allevamento ovino su larga
scala; mette in risalto l’organizzazione della macchina amministrativa,
gli strumenti tecnici e i saperi specifici del tempo; spiega la ragione
dell’esistenza di un centro abitato come Castelluccio in un luogo così
inospitale; tramanda usi e tradizioni locali, tipi di colture agricole, modi di
sfruttamento del terreno; informa su vie e confini e su altre particolarità
legate, forse, a diverse situazioni ambientali (si parla ad esempio, di un
mulino sul Pian Piccolo e di alberi di melo nella stessa zona, oggi difficili
da spiegare). Di particolare interesse, infine, sono i toponimi, capaci di
gettar luce su molte zone buie che ancora restano nonostante la
ridondanza delle disposizioni statutarie. Per capacitarci dell’importanza
del VI libro si pensi a quali molteplici interessi susciterebbe la sua virtuale
riscoperta fra mille anni sotto forma di una ‘tavola veleiate’ o di un opuscolo
di ‘arte mensoria’.
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