Vivere con rispetto
la natura dei Sibillini
Gli splendidi boschi
dei Sibillini
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Equilibri Naturali: una grande
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Notizie in breve
La nuova sede
della Casa del Parco di Preci

Gli splendidi boschi dei Sibillini

C’era una volta… il bosco. Le Marche, fino al Medioevo, si presentavano
completamente ricoperte dal bosco, ad eccezione delle zone acquitrinose
e delle cime più alte delle montagne, costituite proprio dalla catena dei
Monti Sibillini.
Poi l’uomo, con la sua pazienza e tenacia, nel tempo ha provocato
modificazioni sempre più ampie nella copertura forestale originaria fino
a dissodarne superfici sempre più estese, principalmente per ricavare
terreno utile da sfruttare per altre finalità.
Questo lavoro certosino ha plasmato il territorio tramandando, fino ai
nostri giorni, il tipico paesaggio marchigiano - fatto di un mosaico di
campi, filari di piante ad alto fusto e siepi - che ancora si rinviene su
gran parte della regione.
Anche sui Sibillini l’uomo, in particolare nelle zone più accessibili,
ha modificato il territorio ed è quindi andato ad intaccare anche i boschi.
Essi erano, infatti, visti più come risorsa da sfruttare, ad esempio per
ricavarne legna da ardere e carbone, o come impedimento allo
svolgimento di attività come il pascolo o la messa a coltura dei terreni,
considerate all’epoca più redditizie.
Le selve primordiali cambiano progressivamente aspetto: da maestose
foreste secolari ad alto fusto, con un fitto sottobosco dove la luce riesce
difficilmente a penetrare fino al terreno, si trasformano, nella quasi
totalità, in strutture più semplici composte da boschi cedui. Si abbassa
anche il loro limite altitudinale che oggi solo in poche stazioni raggiunge
i 1700-1800 metri.
I tagli sconsiderati portano alla scomparsa di alcune specie di conifere
molto interessanti, come l’Abete bianco (Abies alba), che formava
estese foreste in associazione con il Faggio (Fagus sylvatica) ed il Pino
mugo (Pinus mugo) che, con il suo portamento prostrato, popolava
il cosiddetto orizzonte degli arbusti contorti, ovvero quella fascia
di vegetazione situata sopra il limite della faggeta, che contribuiva,
in maniera detrminante, a proteggere i versanti dalle valanghe.
La semplificazione di questo ecosistema provoca inoltre l’estinzione
di numerose specie animali, in particolare di quelle più specializzate
e legate alla presenza di tronchi di grandi dimensioni, vecchi
e marcescenti, quali il Picchio nero (Dryocopus martius).
Il territorio vede, così, ridursi il bosco in maniera sempre più accentuata,
fino a toccare il minimo storico intorno al 1910, quando la sua
estensione, nella Regione Marche, non raggiunge neanche i 100.000
ettari (pari a circa il 10% dell’intera superficie regionale).
Un impoverimento causato, in quegli anni di grandi trasformazioni verso
una società industriale, anche dalla necessità di approvvigionamento
di traversine per la costruzione di linee ferrate.
Di norma, la legna ricavata dai boschi più lontani dalle vie di
comunicazione veniva trasformata in loco in carbone vegetale, perché
più facilmente trasportabile (ne resta come testimonianza la presenza
di numerosissime “aie carbonili”), mentre quella più facile da raggiungere
veniva esboscata tramite animali da soma, come muli e/o asini.
Eppure, fino all’immediato secondo dopoguerra, proprio per la loro scarsa
praticabilità, numerosi boschi erano ancora praticamente intatti e le
cronache dell’epoca narrano che, ad esempio, nella valle
dell’Acquasanta, nel Comune di Bolognola, per atterrare e spezzare
un solo esemplare di Faggio (all’epoca si tagliava a mano utilizzando
la cosiddetta sega americana) venivano impiegati giorni e giorni di duro
lavoro!
Ma… non tutto è perduto. A partire dagli anni ’50, con l’esodo dalle zone
più disagiate e l’abbandono delle terre marginali, il bosco, nelle Marche,
ha iniziato a espandersi spontaneamente fino ad arrivare a quasi
260.000 ettari (pari al 26,4% del territorio).
Non solo. Nel Parco esistono ancora lembi di boschi ben conservati che
sono una testimonianza dell’ambiente originario e che in futuro, grazie
ad interventi mirati e ad una maggiore tutela, potranno ritrovare l’arcaico
splendore.
Questi ambienti sono un vero e proprio scrigno di biodiversità, dove
ancora sono presenti specie animali e vegetali rare, come il Cerambice
del Faggio, più conosciuto con il nome scientifico Rosalia alpina,
uno splendido coleottero che vive allo stato larvale all’interno degli
alberi secolari, scavando in essi tortuose gallerie.
Molti ecosistemi forestali sono costituiti da boschi di Faggio in purezza
(cioè costituiti solo da questa essenza) o consociati con altre specie,
come l’Acero di monte (Acer pseudoplatanus), il Carpino nero (Ostrya
carpinifolia) ed il Frassino (Fraxinus excelsior).
Alcune faggete sono molto conosciute, come quella ubicata nella gola
rupestre dell’ dell’Infernaccio (a Montefortino), dove è ancora presente
l’elusivo Gufo reale (Bubo bubo), una delle presenze faunistiche più
interessanti dei Sibillini; la Macchia Cavaliera (a Norcia e Arquata del
Tronto), che ricopre il versante che degrada dal monte Pellicciara e dal
monte Forciglieta verso il Pian Piccolo, o ancora la già menzionata
faggeta dell’Acquasanta (a Bolognola), con un interessante sottobosco
difficilmente rinvenibile altrove, composto da numerosi esemplari ad alto
fusto di Tasso (Taxus baccata) ed Agrifoglio (Ilex aquifolium).
Ma il Parco offre una grande diversità forestale e quindi si può
concentrare la nostra attenzione anche su altri ambienti, come quello
della Samara (a Montefortino), dove un bosco relitto (ovvero un residuo
di bosco che rimane attualmente in un ambiente mutato rispetto a quello
originario) di Leccio (Quercus ilex), qui insediatosi durante una fase
climatica calda in periodo post-glaciale, ancora resiste fino a raggiungere
i 1500 metri di quota. Di straordinario interesse sono anche le Gole del
Fiastrone, caratterizzate da un vero e proprio mosaico forestale, dove,
a seconda dell’esposizione e del substrato, specie mediterranee si
alternano a specie tipicamente montane e dove il gatto selvatico (Felix
sylvatica) conserva una delle sue roccaforti.
I corsi d’acqua, come ad esempio il fiume Ambro, presentano tratti
ancora abbastanza integri di vegetazione ripariale, dove è possibile
ammirare il cosiddetto bosco “a galleria”, un habitat sempre più
minacciato, regno del Merlo acquaiolo (Cinclus cinclus) e della Ballerina
gialla (Motacilla cinerea).
Ci sono, poi, anche altri gioielli del Parco, sconosciuti ai più, come ad
esempio il bosco situato sotto Cima della Prata (a Montemonaco), con
faggi secolari contorti, mutilati e segnati dalla furia delle valanghe e
dall’azione continua degli agenti atmosferici, o quello di Vargile (ad
Acquacanina), ubicato in un ripido e solitario vallone sotto il monte
Pietralata, con fusti colonnari che sfidano il cielo.
Visitare uno di questi boschi è un’esperienza unica, quasi mistica, dove
entrando in punta di piedi si riesce pienamente ad apprezzare una natura
che, nonostante tutto, riesce ancora con le sue splendide forme ed i suoi
profondi silenzi, a confrontarsi con il disordine e la frenesia dell’odierna
società.

Cristiano Tarsetti


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