...delle tradizioni artigiane
Musei e buoni affari. Amandola, gli ebanisti lavorano ancora qui.
di Ido Polidori

I castelli di Agello, Leone e Marabbione, posti a guardia dell’alta valle del
Tenna, nel 1248 si allearono dando vita al libero comune di Amandola.
Chi raggiunge questo centro del Parco dei Sibillini sul finire dell’inverno,
già lungo la strada comprende a colpo d’occhio l’origine del nome: sul verde
del grano appena spuntano fremono, come immobili rabbuffi di neve, mille
mandorli in fiore.
Le case si stagliano brune contro i fianchi dei Sibillini coperti di boschi.
E’ uno sfondo che le stagioni impercettibilmente, ma profondamente,
mutano. Castagni, lecci, cerri, faggi, sfumano dal verde all’argento e,
col trascorrere dei mesi, s’infiammano nei riflessi del rame e del bronzo.
In pieno inverno la montagna è un foglio bianco e le selve dolenti graffiti,
allora la legna da ardere diventa per gli amandolesi un bene prezioso.
Un elemento tanto vitale per la comunità che, fin dal XIII secolo,
lo sfruttamento dei boschi è stato sistematico, ma attento alla salvaguardia
ambientale.
Attraverso una secolare esperienza, la cultura popolare ha elaborato i
limiti oltre i quali il depauperamento ambientale diventerebbe irreversibile
ed ha appreso le caratteristiche meccaniche ed energetiche delle diverse
specie arboree.
Quando la neve impediva ogni attività, si combatteva la noia intagliando
ceppi di noce e si fab- bricavano utensili modellando rami di faggio sulla
fiamma del focolare. I più abili, già nel medioevo, iniziarono a guadagnarsi
da vivere come falegnami.
Nelle Marche del Cinquecento fiorirono prestigiose botteghe di ebanisti,
a San Severino, ad Ascoli Piceno, ad Urbino.
I maestri d’ascia di Amandola non furono da meno ed in particolare,
nel XVI secolo, eccelsero Giuseppe e Filippo Benattendi. Le famiglie Gallo
e Cappelletti conquistarono notevole fama in epoca barocca e,
nel Settecento, divisero il successo con i Pettinelli. Oltre al nome degli
artigiani più illustri, si imposero lo stile ed alcuni modelli tipici: i tavoli a “lira”
rotondi o poligonali, le madie di ciliegio, le cantorie marmorizzate.
Ai falegnami di Amandola, che conoscevano bene le potenzialità plastiche
del legno, sembrava doveroso rendere eleganti, oltre che robusti e
funzionali, anche gli oggetti più umili. Ed i segni meno appariscenti di
quell’anelito d’arte, esprimono meglio delle opere importanti la profonda
sacralità del loro lavoro.
Vale la pena quindi d’inerpicarsi per le viuzze del vecchio incasato a
sfogliare un’antologia di “opere d’arte” senza pretese formata da usci ed
imposte.
Alcuni portoni, vigorosamente bugnati, risalgono al rinascimento: altri,
settecenteschi, presentano pannelli scorniciati, filettati o ingentiliti da rosoni
e rosette ovali. S’incontrano anche i “pezzi” celebri dell’ebanisteria
amandolese: un crocifisso intagliato d’età romanica, armadi e confessionali
cinquecenteschi nella chiesa di S. Francesco; un imponente altare
seicentesco in legno dorato ed una splendida cantoria intarsiata da
Giuseppe e Filippo Benattendi, nella cappella di S. Sebastiano.
La tradizione del mobile d’arte amandolese è ancora alimentata da una
decina di artigiani che, non producono con criteri industriali arredi in stile,
ma sono piuttosto falegnami fermi all’epoca del Luigi XVI o del neoclassico.
I masselli vengono piegati a caldo ed intagliati a colpi di sgorbia e di bulino.
Gli intarsi nascono dall’accostamento sapiente di essenze diverse e non
ammettono l’uso dell’anilina. Tavoli, credenze, sedie impagliate, madie:
non sono imitazioni ma mobili del Settecento ma prodotti, immutati, nelle
tecniche e nei materiali di botteghe che a quell’epoca già operavano ad
Amandola.
Oggetti indistruttibili: il tempo può soltanto arricchirli di una morbida luce
che li rende ancora più preziosi.
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