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Tutti i dettagli di questa importante reintroduzione
La conservazione della biodiversità di un’area deve essere programmata
e attuata mediante la tutela dell’intero territorio e non attraverso la sola
conservazione delle singole comunità presenti nel suo interno.
In situazioni però di specie minacciate le cui popolazioni siano ormai
così esigue o isolate tra loro da non rendere possibile una loro naturale
ripresa in seguito alla tutela assicurata, è necessario procedere anche
mediante un approccio specie-specifico, individuando i problemi
gestionali e i fattori limitanti e attuando precisi interventi per assicurare
la conservazione della specie sul lungo periodo
Un approccio di questo tipo si rende necessario per il camoscio
appenninico Rupicapra pyrenaica ornata Neumann, 1899, che una serie
di lavori riguardanti l’ambito biometrico, etologico, genetico e
paleontologico ha riunito con altre due sottospecie (Rupicapra pyrenaica
parva Cabrera, 1911 e Rupicapra pyrenaica pyrenaica Bonaparte, 1845)
a costituire il gruppo dei camosci sud-occidentali Rupicapra pyrenaica
Bonaparte, 1845, separatasi circa 45.000 anni fa da quelli nord orientali
Rupicapra rupicapra (Linnaeus, 1758), e comprendenti anche il nostro
camoscio alpino.
Nell’Olocene il camoscio appenninico era distribuito in un’area compresa
tra i Monti Sibillini e il Pollino; si ipotizza che con il passare del tempo
queste popolazioni rimasero tra loro isolate e durante il periodo storico
furono sottoposte a una pesante azione di sfruttamento dovuta alla
caccia,
utilizzo del territorio e concorrenza con il bestiame.
Per i monti Sibillini il rinvenimento di reperti sub-fossili di 6 individui
attributi a Rupicapra pyrenaica ornata attestano la presenza di questa
sottospecie nell’area sino a circa 10.000 anni fa; sono però disponibili
alcune citazioni storiche indicanti la presenza di “capri selvatici” che
potrebbero far supporre la sopravvivenza del camoscio sino alla fine del
1700.
In tempi storici l’areale documentato era ridotto al massiccio del Gran
Sasso e in località “Costa Camosciara” nell’alta Marsica dove nel 1915
veniva segnalato un branco superstite di questo ungulato formato da
non più di 30 esemplari.
La presenza a livello mondiale di un’unica popolazione di camoscio
appenninico, assestata in un’area di esigue dimensioni nel Parco
Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, e poco diversificata da un punto
di vista genetico a causa della prolungata permanenza a bassa densità,
esponeva quindi questa sottospecie al rischio di estinzione in caso
di drastici cambiamenti ambientali o eventi epidemici.
Questo ha fatto si che la sottospecie, oltre a essere inserita come
specie prioritaria nella Direttiva comunitaria Habitat e considerata
in pericolo di estinzione dalla lista rossa dei mammiferi redatta
dall’IUCN, risultasse particolarmente protetta dalla legislazione italiana.
Per far fronte a questa situazione, lo specifico Piano d’azione per la
sottofamiglia delle Caprinae redatto dal Caprinae Specialist Group e il
Piano d’azione nazionale, indicano come misura prioritaria il
raggiungimento di una consistenza superiore a 1.000 individui, suddivisi
in 5 popolazioni distinte.
Per questo motivo tra il 1991 e il 1994 venne attivato un programma
di re-introduzione della specie sui massicci di Majella e Gran Sasso,
denominato “Operazione Camoscio”, a cui sono poi seguiti ulteriori
rilasci all’interno di progetti di conservazione realizzati da questi Parchi
anche con il cofinanziamento dalla Comunità Europea.
Nell’ambito delle attività per la conservazione di questa preziosa
sottospecie, il programma per arrivare alla costituzione nei Sibillini
della quarta popolazione in natura di camoscio appenninico è stata
un’operazione lunga e complessa, portata avanti dal Parco con
il supporto tecnico-scientifico del gruppo di ricerca dell’Università
di Siena, coordinato dal Prof. Sandro Lovari che vanta una lunga
esperienza su questa sottospecie, e realizzata anche grazie
a cofinanziamenti dell’Unione Europea nell’ambito del programma Life
Natura.
Si è quindi partiti dalla realizzazione di specifici studi di fattibilità che
hanno permesso di verificare come nel massiccio montuoso dei Sibillini,
all’interno dell’omonimo Parco Nazionale, vi sia un comprensorio di circa
24.000 ettari adatto per la creazione di un nuovo nucleo di camoscio
appenninico.
Nello stesso tempo è stato analizzato l’impatto, potenziale e non,
dei fattori limitanti per la specie quali la presenza di bestiame pascolante
e aspetti sanitari collegati, delle attività turistico-ricreative,
del randagismo canino e bracconaggio, indicando nel contempo precise
misure di intervento per evitare ripercussioni sulla conservazione
del camoscio appenninico sul lungo periodo dovute a questi fattori.
Da ultimo, ma non certo come importanza, particolare cura è stata
scelta nell’individuazione dell’area di rilascio e dei soggetti sia
per assicurare buone possibilità di successo all’operazione, ma anche
con l’intento di minimizzare l’impatto di queste operazioni sulla
“popolazione sorgente” presente nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio
e Molise.
Le fasi per la cattura e il trasferimento dei primi individui dal Parco
Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise erano già state attivate a partire
dal 2006, ma solo nel 2008 si è potuto operare concretamente; tra il
10 settembre e il 3 ottobre gli elicotteri dell’Esercito e del Corpo
Forestale hanno permesso di trasferire sul massiccio dei Sibillini i primi
8 esemplari (3 maschi e 5 femmine) di camoscio appenninico, a cui
seguiranno almeno altri 7 esemplari il prossimo anno.
Sulla base delle esperienze maturate con i rilasci in Majella e Gran
Sasso, dopo il rilascio si assiste in genere a una fase di erratismo
in cui gli animali – e maggiormente i maschi adulti che tendono rimanere
con i branchi di femmine solo per il breve periodo riproduttivo tra
novembre e dicembre - tendono a esplorare il nuovo ambiente.
Risulta quindi importante poter seguire gli spostamenti dei diversi
soggetti e verificare il formarsi dei branchi; per questo motivo ogni
camoscio è stato dotato di marche auricolari colorate contrassegnate
secondo un preciso codice di ricerca e di radiocollare, alcuni di tipo
satellitare.
Va sottolineato il notevole apporto dato in questa fase critica dai collari
satellitari posti sui maschi; attraverso un sistema GPS permettono infatti
di ottenere una serie continuativa e precisa di localizzazioni, le cui
coordinate vengono inviate agli operatori attraverso la rete satellitare
di telefonia mobile. Inoltre nel caso il camoscio si venga a trovare in
un’area non coperta dalla rete, una memoria interna al sistema permette
di archiviare le localizzazioni e inviarle quando il campo ritorna
disponibile.
I dati provenienti dal programma di monitoraggio - affidato al Dr. Simone
Alemanno e alla Dr.ssa Sofia Menapace che operano in cooperazione
con il Parco, il Coordinamento Territoriale per l’Ambiente del CFS,
e sotto la supervisione scientifica dell’Università di Siena – hanno
permesso di verificare come già poco dopo la liberazione si sia formato
un nucleo di femmine nell’area di rilascio, confermando così la validità
della zona scelta; i maschi hanno invece subito mostrato il tipico
erratismo effettuando ampi spostamenti, ma facendo però ciclicamente
ritorno nell’area di rilascio.
L’attuale periodo, coincidente con quello degli amori, vede i maschi
localizzati in vicinanza del gruppo delle femmine, situazione che fa ben
sperare di poter avvistare nella prossima primavera i primi piccoli nati
sui Sibillini.
E’ comunque una fase ancora estremamente delicata in cui qualsiasi
disturbo potrebbe compromettere l’esito dell’intera operazione;
per questo motivo è importante la collaborazione di tutti quanti
frequentano e amano la montagna nel rispettare le norme che il Parco
impone non certo come un divieto, ma per far si che il “camoscio più
bello del mondo” torni numeroso a frequentare le cime dei Sibillini come
i suoi antenati di 10.000 anni fa.
Franco Mari |